Notule

 

 

(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XXI – 23 marzo 2024.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVI INFORMAZIONI]

 

Scoperta una possibilità per lo sviluppo di analgesici non oppioidi TRPV1. I tentativi finora compiuti per produrre farmaci analgesici non oppioidi agenti sul recettore TRPV1 sono stati vanificati dagli effetti deleteri sulla temperatura corporea (CBT, core body temperature), per l’ipotermia degli agonisti e l’ipertermia degli antagonisti. Yi-Zhe Huang e colleghi hanno scoperto che PSFL2874, un antagonista di TRPV1, è efficace contro il dolore infiammatorio, ma non si lega a S4-S5 linker e quindi non crea alterazioni della CBT. Questa scoperta offre una possibilità concreta per sviluppare nuovi farmaci analgesici non oppioidi che non disturbano la termoregolazione. [Cfr. Neuron – AOP doi: 10.1016/j.neuron.2024.02.016, 2024].

 

Malattia di Alzheimer: la disfunzione del sistema glinfatico orienta la prognosi. Misurando l’attività del sistema glinfatico dell’encefalo mediante DTI-ALPS in affetti da Alzheimer, MCI (mild cognitive impairment) e sani di controllo, Shu-Yi Huang e colleghi hanno rilevato che la compromissione glinfatica può precedere la patologia e consente di prevedere la deposizione di amiloide, la neurodegenerazione e la progressione della malattia. [Cfr. Alzheimer’s & dementiaAOP doi: 10.1002/alz.13789, March 19, 2024].

 

I KCNQ della glia mutati in epilessia e autismo controllano l’eccitabilità dei neuroni. I KCNQ solo canali del K+ regolati dal voltaggio studiati nei neuroni e noti per le forme mutate nell’epilessia e nei disturbi dello spettro dell’autismo. Bianca Graziano e colleghi hanno dimostrato per la prima volta, in C. elegans, che i canali KCNQ della glia controllano l’eccitabilità neuronica mediando il rilascio di GABA dalla glia, regolando i canali del Ca2+ tipo L. Questa scoperta indica che le mutazioni patogenetiche dei KCNQ alterano il rilascio tonico o fasico di GABA dalle cellule gliali. [Cfr. Neuron – AOP doi: 10.1016/j.neuron.2024.02.013, 2024].

 

Malattia di Parkinson: uso dei biomarker per ottenere una diagnosi precoce. La malattia di Parkinson, seconda solo alla malattia di Alzheimer per incidenza e gravità fra le malattie neurodegenerative, è ancora diagnosticata dopo la comparsa dei sintomi motori, ossia quando circa il 75% dei neuroni dopaminergici della parte compatta della substantia nigra è già degenerata. Somdutta Das e Harshal Ramteke analizzano i biomarker da impiegare per una diagnosi precoce che può migliorare la prognosi, dividendoli in clinici, biologici, genetici e rilevabili mediante neuroimaging, e poi discutendone la specificità e la sensibilità. [Cfr. Cureus 16 (2): e54337, 2024].

 

Il recettore del glutammato GluK2 (kainato) è il termosensore del freddo alla periferia. I termosensori espressi dai neuroni somatosensoriali periferici sono studiati da tempo, e sono stati bene caratterizzati quelli in grado di rilevare temperature fresche, calde e roventi, ma ancora poco si conosce dei termosensori del freddo. Infatti, tutti i candidati recettori del freddo, alla verifica sperimentale in vivo, non sono risultati in grado di mediare la risposta alla bassa temperatura. Wei Cai e colleghi hanno scoperto che GluK2, un chemorecettore sensibile al glutammato che media la trasmissione sinaptica nel sistema nervoso centrale, è cooptato come termorecettore del freddo alla periferia. [Cfr. Nature Neuroscience – AOP doi: 10.1038/s41593-024-01585-8, 2024].

 

Berberina: è un immunomodulatore efficace nella sclerosi multipla (MS)? La berberina è un alcaloide benzilisochinolinico estratto da piante del genere Berberis, come Berberis vulgaris e Berberis aristata, con varie proprietà farmacologiche dovute alla sua interazione con vari target cellulari e molecolari. Studi recenti hanno dimostrato proprietà immunomodulatorie dovute all’impatto dell’alcaloide su vari subset di linfociti T, di cellule dendritiche (DC) e citochine infiammatorie. Esmaeil Yazdanpanah e colleghi, dopo una rassegna degli studi eseguiti, hanno verificato sperimentalmente la possibilità di un effetto terapeutico della berberina sulla sclerosi multipla (MS), attraverso un’azione immunomodulatoria su Th 1, Th 17, Th 2, Treg e DC, e su importanti citochine nella patogenesi della MS. L’esito negativo della sperimentazione ha raffreddato gli entusiasmi, anche se altri gruppi di ricerca continueranno a indagare. [Cfr. Immunity, Inflammation and Disease – AOP doi: 10.1002/iid3.1213, 2024].

 

Malattia di Alzheimer: l’obesità infantile è un fattore di rischio? L’obesità dell’età media della vita è un fattore di rischio modificabile per la malattia di Alzheimer, ma se l’obesità dell’infanzia rappresenti o meno un rischio reale di demenza neurodegenerativa è finora rimasta una questione dibattuta. Wenxiang Qing e Yujie Qian, usando più metodi, dallo studio statistico dei GWAS database a metodi pesati per stime MR, hanno ottenuto risultati che consentono ragionevolmente di escludere un rapporto causa-effetto. [Cfr. Arch Public Health 82 (1): 39, 2024].

 

Le mucche da latte possono imparare a trasformare in gioco un’esperienza stressante. Questi bovini ricevono molte cure in allevamento, ma alcune procedure possono risultare stressanti, e dunque suscitare reazioni di avversione o paura. Un PRT (positive reinforcement training), ossia un esercizio con ricompensa per ottenere il comportamento desiderato, condotto 4 giorni a settimana con una sessione al giorno per animale, per un totale di 28 sessioni, ha ottenuto buoni risultati. Le mucche imparavano a considerare positiva l’esperienza in precedenza vissuta come stressante e associavano all’apprendimento un comportamento divertito, con salti, corse e disposizione al gioco. [Cfr. Heinsius J. L. et al., Journal of Dairy Science – AOP doi: 10.3168/jds.2023-23709, 2024].

 

Le madri scimpanzé giocano sempre con i figli e non solo per facilitarne la crescita. Un’osservazione condotta su scimpanzé in ambiente naturale per 10 anni ha evidenziato il ruolo del gioco nel rapporto delle madri con i figli: una modalità di relazione conservata in tutte le circostanze e per il resto della vita. Quando i primati sono in difficoltà perché il cibo scarseggia, in genere il focus degli adulti si sposta sulla sopravvivenza, e abbandonano il gioco; ma le madri, pur andando in cerca di cibo, continuano a giocare con i figli anche grandi, rincorrendoli, mimando l’aeroplano, facendo loro il solletico e condividendo il piacere di trascorrere tempo con loro lasciandosi andare. [Cfr. Current Biology – AOP doi: 10.1016/j.cub.2024.02.028, 2024].

 

Una popolazione di orche con nuovi comportamenti è stata individuata nel Pacifico Nordorientale. Ci siamo di recente occupati di orche (Orcinus orca), trattando dell’aumento degli attacchi degli squali all’uomo (Note e Notizie 17-02-24 Notule: Aumentano gli attacchi mortali degli squali all’uomo: cambiamento comportamentale?), e in precedenza abbiamo riportato dei nuovi comportamenti sviluppati dalle orche in qualità di predatori marini apicali (v. Note e Notizie 04-11-23 Notule: Orribili e stupefacenti: i nuovi comportamenti delle Orche fanno riflettere).

Ricercatori della University of British Columbia hanno individuato al largo della California e dell’Oregon una popolazione di 49 orche con comportamenti inusitati: oltre a cacciare tartarughe marine attaccavano i capodogli, cosa mai avvenuta in precedenza. L’orca, unica specie del genere Orcinus, è un cetaceo della famiglia dei delfinidi e non delle balene, come potrebbe suggerire l’improprio nome inglese di killer whale, e non attacca mai il capodoglio (Physeter macrocephalus), mastodontico cetaceo odontoceto considerato il più grande predatore al mondo, con i maschi che possono superare i 20 metri di lunghezza. Josh D. McInnes e colleghi hanno raccolto osservazioni per 4 anni e durante 9 incontri diretti con le orche di questo gruppo di 49, documentando riccamente l’ipotesi di una popolazione che ha sviluppato comportamenti aggressivi nuovi. [Cfr. Aquatic Mammals – AOP doi: 10.1578/AM.50.2.2024.93, 2024].

 

Isola di Pasqua: il mistero più grande è nella scrittura. La domenica di Pasqua del 1722 un navigatore olandese di nome Jakob Roggeveen[1] sbarcò su un’isola vulcanica del Sud Pacifico, in realtà appartenente alla Polinesia ma poi entrata nella giurisdizione cilena, che denominò “Isola di Pasqua” dal giorno in cui avveniva lo sbarco. Ritenuta dai geografi la terra abitata più isolata al mondo, era chiamata dagli indigeni Rapa Nui o Rapanui, reso nella traduzione con “grande isola”, e talvolta indicata con Te Pito oppure Te Henua, espressioni che definiscono un concetto spaziale assoluto, che forse potremmo rendere con La Terra, ma che sono state tradotte nelle lingue occidentali con la colorita locuzione “l’ombelico del mondo”[2].

I monoliti, le enormi statue raffiguranti teste e busti con le acconciature tradizionali, di altezza dai due metri e mezzo ai dieci metri, con una incompiuta alta ventuno metri, che contraddistinguono l’isola e la sua misteriosa civiltà perduta, sono dette Moai, dal Mo’ai rapanuense. Anton Franz Englert frate Sebastian, missionario dei frati minori cappuccini e linguista tedesco, sull’isola dal 1935 al 1969 come sacerdote missionario, unico non appartenente al popolo di Rapa Nui a imparare la lingua indigena[3], elencò, numerò e classificò 638 Moai; successivamente l’Archeological Survey and Statue Project ne ha riconosciuti 887, ma da resti e frammenti ipotizza che in origine fossero più di 1000. Sul retro delle statue sono incisi simboli, fra cui spesso si riconosce la Vaka (“falce”), e che, nell’insieme, ci introducono al rompicapo della scrittura dell’Isola di Pasqua che, al contrario di quanto a volte si sente in documentari televisivi o si legge in trattazioni superficiali simili a testi di guide turistiche, non è la resa scritta della lingua rongorongo parlata dai nativi.

In tutta l’area geografica del Pacifico meridionale l’isola Rapa Nui è stata l’unica a sviluppare ciò che appare un proprio sistema di scrittura, con la quale gli indigeni incidevano anche la superficie di quel pettorale di legno di toromiro[4] a forma di mezzaluna, divenuto l’emblema di quella cultura, ossia il Rei Miro: oggi la bandiera dell’Isola di Pasqua è un Rei Miro rosso su campo bianco. Le scritte su questo oggetto, rimasto misterioso nell’uso e nel significato, non sono state di alcun aiuto per la decifrazione.

La prima difficoltà da superare è la distinzione basata sulla conoscenza storica tra le rappresentazioni grafiche attribuibili al popolo autoctono e quelle realizzate dopo la colonizzazione da parte di nativi sudamericani prima della scoperta dell’America. La leggenda trasmessa oralmente dai nativi attribuisce l’invenzione della scrittura al re Hotu Matua, che l’avrebbe portata con sé dal mare[5]. Non possiamo tacere, in proposito, l’esperimento condotto dall’esploratore norvegese Thor Heyerdahl che, per provare la colonizzazione da parte di una popolazione proveniente dal Sud America, verosimilmente dal Perù, costruì un battello simile a una grande zattera a vela, che chiamò Kon-Tiki, dal nome del dio della pioggia Inca, e col quale compì la traversata fino a Rapa Nui[6]. Tuttavia, la plausibilità di un tale viaggio con un mezzo antico e tipico non risolve i problemi che, come vedremo più avanti, vedono ancora divisi gli studiosi. In particolare, i glifi dell’isola non sembrano derivare dai sistemi di scrittura del Sud America.

L’avventura della decifrazione solo in parte riuscita della scrittura dell’Isola di Pasqua comincia con un gruppo di tavolette venute all’attenzione di un missionario, padre Zumbohm, che nel 1868 le fece conoscere a linguisti ed epigrafisti europei. L’aspetto tipico è quello di una tavola oblunga levigata, ad angoli smussi, che può raggiungere i 90 cm e presenta su entrambe le facce un’ordinata serie di simboli in file longitudinali che, ad ogni fila, invertono il verso della lettura. I documenti lignei studiati a quell’epoca erano poco più di venti, e oggi sono sparsi nei principali musei d’Europa. L’iscrizione era tracciata con una punta di ossidiana e poi completata nell’incisione con un dente di squalo.

Con l’aiuto dei nativi, che sembravano intendere perfettamente il significato delle iscrizioni, furono distinte in base alla funzione: 1) koau rongo rongo (roŋo) erano le tavolette per la recitazione comunitaria rituale; 2) koai mama erano quelle per l’eliminazione dei tabù; 3) koau ra’u erano le tavole dell’anno. Le più interessanti sono le prime: il koau rongo rongo è un sistema specifico di glifi, il cui nome vuol dire “linee recitative”, da koau = “linea incisa” e dal raddoppiamento di rongo (messaggio), che vuol dire “recitare”, “declamare”, “cantare”[7]. La tradizione diceva che tutte le tavolette erano state incise sull’isola dove, prima del legno, si usavano le foglie del banano. Un duro colpo al lavoro di decifrazione fu inferto dagli schiavisti, che catturarono e deportarono come schiavi il re[8], la famiglia reale, la corte e la quasi totalità dei nativi in grado di “leggere” le tavole e le altre iscrizioni. Abbiamo messo tra virgolette il verbo, perché era subito apparso evidente che i glifi, non solo non erano cifre esaustive come quelle verbo-grafiche della scrittura alfabetica ma, in molti casi, sembravano non avere corrispondenza con quanto declamavano o cantavano gli indigeni quando le avevano davanti.

I missionari impegnati nello studio delle iscrizioni riferivano che ogni anno il sovrano dell’Isola di Pasqua chiamava a raccolta per una cerimonia solenne gli “esperti di canto” da ogni angolo di Rapa Nui, e ciascuno di questi conveniva con le sue tavolette e ne cantava o declamava il contenuto. L’ultimo dei sovrani fu l’ariki Ngaara del clan Miru, morto intorno alla metà del XIX secolo; le stragi dell’incursione cilena del 1863, seguita dalla diffusione di sifilide e vaiolo, determinarono quasi la scomparsa di persone in grado di riconoscere i glifi. Jaussen, Vescovo di Tahiti dal 1868, lasciò un primo studio sulle tavolette e sul loro uso. Raccolse una lista con i nomi e la traduzione di 253 caratteri secondo quanto gli avevano comunicato i nativi; soprattutto osservò che “il canto delle tavolette richiedeva più parole di quanti non fossero i simboli. Era evidente quindi che chi leggeva ricordava a memoria il contenuto”[9].

Oggi comprendiamo qual era la difficoltà dei primi studiosi nel tentativo di decifrare: i glifi del rongorongo non originavano da una cifratura fissa e completa della lingua parlata, ma rappresentavano in parte un codice e in parte stimoli evocatori di memorie già formate, ossia qualcosa in grado di richiamare alla mente un contenuto.

Per questo, oggi sappiamo tante cose delle iscrizioni rongorongo, e possiamo ad esempio dire che sono estese con andamento bustrofedico, ossia secondo il movimento che fanno i buoi quando arano un campo che, se tracciano il primo solco andando da sinistra a destra, tracceranno il successivo da destra a sinistra, e così via; ma questo non aggiunge molto: anche il latino dei codici medievali era scritto dai monaci in bustrofedico e, per giunta, in scriptio continua. Il problema irrisolvibile è che alcuni glifi, che rappresentano forme naturali, umane, di animali, di piante, o forme geometriche astratte, non codificano la lingua ma stanno lì a suscitare il ricordo di chi conosce il contenuto: forse un concetto o, più probabilmente, una sequenza di significati.

Un’ipotesi parsa a molti ragionevole ha considerato che vi sia stato un modo più antico di annotare i concetti cantati, che si sia poi evoluto attraverso l’influenza di forme di scrittura portate dai conquistatori peruviani, o che sia stato soppiantato dalle nuove forme di notazione. La prima delle due possibilità è stata suggerita da studiosi che hanno proposto un accostamento con quanto accaduto presso la tribù dei nativi Cherokee del Nord America: entrati in possesso di giornali inglesi dei coloni, hanno ripreso il criterio di cifratura alfabetica dei fonemi per scrivere il loro idioma.

Per anni la scrittura di Rapanui è stata accostata alle forme grafiche di Sumatra, dello Sri Lanka, dell’Egitto, della Cina arcaica. Infatti, sul piano formale si può dimostrare che una parte dei suoi segni trova rispondenza in quelli della Valle dell’Indo. Molti linguisti hanno avanzato l’ipotesi di un collegamento, ma almeno altrettanti hanno evidenziato l’enorme distanza di tempo e spazio fra le due esperienze e, soprattutto, l’assenza di possibili anelli di congiunzione.

Questa ipotesi è stata definitivamente abbandonata, dopo la decifrazione di alcune tavolette da parte di Thomas Barthel. Basandosi per il suo lavoro sui preziosi e dettagliati appunti del Vescovo di Tahiti Jaussen, con la tavola di conversione di 253 caratteri, “Barthel ha mostrato che le tavolette cifrano una lingua polinesiana con criterio logografico: ogni segno vale la sequenza fonica di una parola, ma senza particelle o pronomi, che evidentemente vengono integrati a memoria. Si tratterebbe quindi di un sistema di supporto, complementare ad un apprendimento a memoria di testi di interesse rituale”[10].

La decifrazione di quelle tavolette rongo rongo non risolve il problema della decifrazione di tutta la scrittura rapanui, ma nemmeno dei soli documenti scritti per il canto cerimoniale. Analisi attente condotte in anni recenti hanno evidenziato che alle tavolette non mancano solo “particelle” e “pronomi” delle nostre lingue (di ceppo latino o germanico) ma anche altri funtori, verbi e sostantivi. Ma, soprattutto, la maggior parte delle 26 tavolette scritte nei glifi rongorongo, pur avendo in massima parte gli stessi segni, non è stata decifrata, perché adottando gli stessi criteri di Jaussen e Barthel non sembrano avere alcun senso. Una possibilità è che prevalga in queste, sulla funzione comunicativa, la funzione evocatrice di contenuti e significati presenti nella memoria del lettore.

Rimane irrisolto anche il problema della provenienza del modello dei glifi, ossia della base principale del codice. Secondo Barthel si tratta di una scrittura polinesiana e non peruviana. L’antropologo austriaco Robert Heine-Geldern avanzò un’ipotesi compatibile con l’origine da una migrazione polinesiana o prepolinesiana: la scrittura rapanui può essere ricollegata a una scrittura asiatica del I millennio a.C. usata sulla costa del Tonchino, ponte tra la scrittura della Valle dell’Indo e quella cinese più arcaica.

L’ipotesi è anche compatibile con la leggenda del re Hotu Matua, che porta la scrittura dal mare; ma, come già faceva notare Giorgio Raimondo Cardona, è posta fortemente in dubbio da questa osservazione critica: “se effettivamente essa è stata portata nella direzione indicata da Heine-Geldern, è comunque inspiegabile che al di fuori di Rapanui non ne sia rimasta traccia in nessun’altra isola”[11].

Oggi, in assenza di nuovi elementi dalle ricerche archeologiche, si rimane sospesi in questa aporia, a meno che non si voglia concedere una sia pur minima probabilità a un’eventualità esclusa da tutti a priori: e se quella caratterizzazione dei glifi assente nelle altre isole polinesiane fosse stata creata proprio nell’Isola di Pasqua? [BM&L-Italia, marzo 2024].

 

Un’obiezione sulla Tavoletta di Narmer ci dà l’occasione per fornire nuovi spunti di conoscenza e riflessione. Al Seminario Permanente sull’Arte del Vivere è stata comunicata un’obiezione all’affermazione sulla Tavoletta di Narmer o Tavola della Vittoria di Narmer dell’egittologo Bob Brier “il primo documento storico al mondo”[12] (v. Note e Notizie 16-03-24 Notule: I geroglifici aiutano a comprendere l’esperienza creativa della scrittura delle origini), rilevando che esistono iscrizioni molto più antiche nel continente africano.

È vero che la ricerca archeologica degli ultimi 25 anni ha portato alla luce una quantità di materiali antichissimi e interessantissimi, in massima parte reperiti e studiati dopo la pubblicazione del libro di Bob Brier, e che queste scoperte hanno portato a rivedere molte nozioni relative alla cronologia delle più remote tracce di scrittura. E, a questo proposito, riportiamo il reperimento di un’iscrizione nell’oasi di Kharga, ovest della Nubia, datata all’incirca 5000 a.C.: i segni, sotto un’immagine che si ritiene possa rappresentare il dio nilotico Seth, presentano analogie con sistemi di scrittura sviluppati in epoche seguenti (Tifinagh e Vai) e sono considerati la più antica forma di scrittura nota, denominata “Proto-Sahariano”.

Dobbiamo osservare, innanzitutto, che vige una distinzione tra pre-scrittura e proto-scrittura: la prima definizione indica la resa in segni di un pensiero non effettuata attraverso un sistema codificato per rendere una lingua; la seconda si riferisce a primi tentativi di codifica grafica di una lingua parlata. Questa distinzione in alcuni casi è evidente, in altri lo è meno, e il giudizio su alcuni reperti archeologici di iscrizioni non vede concordi i linguisti.

Per orientarsi, vale il criterio insegnato in Italia dal professore Aniello Gentile: per essere certi nell’attribuzione del valore di proto-scrittura alle serie di segni tracciati o incisi sulla pietra è necessario avere prove sufficienti che i simboli fonetici, logografici o pittografici costituiscano un mezzo per rappresentare una lingua parlata. In altri termini, per scrittura si deve intendere la rappresentazione di astrazioni mediata dalla lingua, ossia da un codice orale condiviso per tradizione da un esteso gruppo di parlanti. Ciò che rappresenta direttamente le idee senza riferimenti al codice orale della lingua parlata, nella massima parte dei casi rientra nel disegno, nella pittura, nell’arte.

Tanto premesso, facciamo una precisazione circa l’affermazione dell’egittologo Bob Brier da noi riportata: lo studioso non dice che la Tavoletta di Narmer sia la più antica iscrizione conosciuta nella storia dell’umanità, ma “il primo documento storico al mondo”, ossia un manufatto che, adoperando una proto-scrittura ancora affidata a tre criteri (figurativo, fonetico e logografico) rappresenta un evento storico confermato da centinaia di attestazioni documentali, ossia la riunificazione del regno di Egitto.

Un’osservazione critica la avanziamo noi, in questa sede a nome della cultura storica, nei confronti degli autori, prevalentemente statunitensi, di testi che stanno applicando i criteri geopolitici correnti alla descrizione delle civiltà del passato e della realtà antica: non è proponibile derubricare la civiltà degli antichi Greci, la cui cultura diffusa dai Romani in tutto il territorio dell’Impero è giunta in tutto il mondo attraverso la fusione di alcune sue radici con la cultura cristiana, come “una civiltà dell’Europa sudorientale”; o definire gli antichi Egizi semplicemente come “un popolo africano”.

Ci auguriamo che questo “costume” non derivi da un “revisionismo da ignoranti”, ma solo dall’influenza propagata attraverso il web dello stile giornalistico che Wikipedia e altri grandi portali a fruizione globale hanno introdotto nelle trattazioni biografiche, in cui si legge di Platone, Cesare o Dante Alighieri “è stato un filosofo, un governatore o un poeta”, come se si stesse trattando di un contemporaneo appena defunto, e come se qualcuno potesse crederli ancora in vita;  e si leggono biografie introdotte da schede riassuntive compilate nello stile di un curriculum aziendale, nelle quali, ad esempio, si legge: “Napoleone – professione: imperatore”. [Fonte: Seminario Permanente sull’Arte del Vivere BM&L-Italia, marzo 2024].

 

Notule

BM&L-23 marzo 2024

www.brainmindlife.org

 

 

 

________________________________________________________________________________

 

La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 



[1] Considerato uno dei maggiori esploratori del Pacifico Orientale, scoprì fra l’altro le isole Samoa.

[2] Senza rendersene conto, i traduttori hanno incluso nel valore semantico del termine la prospettiva occidentale moderna: per noi che abbiamo presente la complessiva estensione del globo terraqueo, identificare la propria isola con la terraferma in assoluto è come considerarla “l’ombelico del mondo”.

[3] Autore di un Dizionario RapaNui-Spagnolo (1938) e di un’opera storica, antropologica e archeologica sull’Isola di Pasqua da noi consultata nella riedizione del 2004: La tierra de Hotu Matu’a (1948).

[4] Un albero tipico dell’isola. Oggi li fanno anche con legni diversi o con altri materiali. La sagoma presenta alle estremità due teste di animali; i Rei Miro sono a volte rifiniti come uccelli stilizzati, a volte come imbarcazioni.

[5] Si ritiene sia vissuto in un periodo intorno al 1200, ma non vi è certezza.

[6] Narrò l’impresa in un libro intitolato proprio Kon Tiki, poi diresse un film-documentario sulla traversata, premiato con un Oscar. Attualmente l’imbarcazione Kon-Tiki è esposta al Kon-Tiki Museum di Oslo.

[7] D’altra parte sappiamo che in tutto il mondo antico i testi poetici erano cantati (i Salmi, le opere omeriche, ecc.), e che l’invenzione di una poesia senza musica appartiene a un’evoluzione tardo-medievale e moderna della cultura occidentale.

[8] In molti resoconti dell’epoca, il sovrano di Rapa Nui è definito semplicemente “capo”, come se tutta la popolazione fosse costituita da una sola tribù rimasta allo stato selvaggio; naturalmente, non era questa la visione dei nativi che, anche grazie all’opera di molti missionari, avevano creato istituzioni civili e religiose sul modello europeo, edificando chiese ed edifici civici.

[9] Giorgio Raimondo Cardona, Storia Universale della Scrittura, p. 264, Edizione CDE (su licenza Arnoldo Mondadori Editore), Milano 1986.

[10] Giorgio Raimondo Cardona, op. cit., idem. Barthel decifrò, in particolare, la tavoletta Mamari, ossia un calendario lunare, e dunque l’unico scritto di cui si è compreso completamente il significato e la funzione. Attualmente la tavoletta è custodita presso l’Archivio dei S.S. Cuori a Grottaferrata (Roma).

[11] Giorgio Raimondo Cardona, op. cit., idem.

[12] Robert Brier, Daily Life of the Ancient Egyptians, p. 202, A. Hoyt Hobbs, 1999.