Notule
(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)
NOTE
E NOTIZIE - Anno XXI – 23 marzo 2024.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei
soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del
testo: BREVI INFORMAZIONI]
Scoperta una possibilità per lo sviluppo
di analgesici non oppioidi TRPV1. I tentativi finora
compiuti per produrre farmaci analgesici non oppioidi agenti sul recettore
TRPV1 sono stati vanificati dagli effetti deleteri sulla temperatura corporea (CBT,
core body temperature), per l’ipotermia degli agonisti e l’ipertermia degli
antagonisti. Yi-Zhe Huang e colleghi hanno scoperto
che PSFL2874, un antagonista di TRPV1, è efficace contro il dolore
infiammatorio, ma non si lega a S4-S5 linker e quindi non crea
alterazioni della CBT. Questa scoperta offre una possibilità concreta per
sviluppare nuovi farmaci analgesici non oppioidi che non disturbano la
termoregolazione. [Cfr. Neuron – AOP doi: 10.1016/j.neuron.2024.02.016, 2024].
Malattia di Alzheimer: la disfunzione
del sistema glinfatico orienta la prognosi. Misurando
l’attività del sistema glinfatico dell’encefalo mediante DTI-ALPS in affetti da
Alzheimer, MCI (mild cognitive impairment) e sani di controllo, Shu-Yi Huang e colleghi hanno rilevato che la
compromissione glinfatica può precedere la patologia e consente di prevedere la
deposizione di amiloide, la neurodegenerazione e la progressione della
malattia. [Cfr. Alzheimer’s & dementia – AOP
doi: 10.1002/alz.13789, March 19, 2024].
I KCNQ della glia mutati in epilessia e
autismo controllano l’eccitabilità dei neuroni. I
KCNQ solo canali del K+ regolati dal voltaggio studiati nei neuroni
e noti per le forme mutate nell’epilessia e nei disturbi dello spettro dell’autismo.
Bianca Graziano e colleghi hanno dimostrato per la prima volta, in C.
elegans, che i canali KCNQ della glia controllano l’eccitabilità neuronica
mediando il rilascio di GABA dalla glia, regolando i canali del Ca2+
tipo L. Questa scoperta indica che le mutazioni patogenetiche dei KCNQ alterano
il rilascio tonico o fasico di GABA dalle cellule gliali. [Cfr. Neuron – AOP
doi: 10.1016/j.neuron.2024.02.013, 2024].
Malattia di Parkinson: uso dei biomarker
per ottenere una diagnosi precoce. La malattia di
Parkinson, seconda solo alla malattia di Alzheimer per incidenza e gravità fra
le malattie neurodegenerative, è ancora diagnosticata dopo la comparsa dei
sintomi motori, ossia quando circa il 75% dei neuroni dopaminergici della parte
compatta della substantia nigra è già degenerata. Somdutta Das e Harshal Ramteke analizzano i biomarker
da impiegare per una diagnosi precoce che può migliorare la prognosi, dividendoli
in clinici, biologici, genetici e rilevabili mediante neuroimaging,
e poi discutendone la specificità e la sensibilità. [Cfr. Cureus 16 (2): e54337, 2024].
Il recettore del glutammato GluK2 (kainato) è il termosensore del
freddo alla periferia. I termosensori
espressi dai neuroni somatosensoriali periferici sono studiati da tempo, e sono
stati bene caratterizzati quelli in grado di rilevare temperature fresche,
calde e roventi, ma ancora poco si conosce dei termosensori
del freddo. Infatti, tutti i candidati recettori del freddo, alla verifica
sperimentale in vivo, non sono risultati in grado di mediare la risposta
alla bassa temperatura. Wei Cai e colleghi hanno
scoperto che GluK2, un chemorecettore sensibile al glutammato che media la
trasmissione sinaptica nel sistema nervoso centrale, è cooptato come
termorecettore del freddo alla periferia. [Cfr. Nature Neuroscience – AOP doi: 10.1038/s41593-024-01585-8,
2024].
Berberina:
è un immunomodulatore efficace nella sclerosi multipla (MS)? La
berberina è un alcaloide benzilisochinolinico
estratto da piante del genere Berberis, come Berberis vulgaris e
Berberis aristata, con varie proprietà
farmacologiche dovute alla sua interazione con vari target cellulari e
molecolari. Studi recenti hanno dimostrato proprietà immunomodulatorie
dovute all’impatto dell’alcaloide su vari subset di linfociti T, di
cellule dendritiche (DC) e citochine infiammatorie. Esmaeil
Yazdanpanah e colleghi, dopo una rassegna degli studi
eseguiti, hanno verificato sperimentalmente la possibilità di un effetto
terapeutico della berberina sulla sclerosi
multipla (MS), attraverso un’azione immunomodulatoria
su Th 1, Th 17, Th 2, Treg e DC, e su importanti
citochine nella patogenesi della MS. L’esito negativo della sperimentazione ha
raffreddato gli entusiasmi, anche se altri gruppi di ricerca continueranno a
indagare. [Cfr. Immunity, Inflammation
and Disease – AOP doi: 10.1002/iid3.1213, 2024].
Malattia di Alzheimer: l’obesità
infantile è un fattore di rischio? L’obesità dell’età
media della vita è un fattore di rischio modificabile per la malattia di
Alzheimer, ma se l’obesità dell’infanzia rappresenti o meno un rischio reale di
demenza neurodegenerativa è finora rimasta una questione dibattuta. Wenxiang Qing e Yujie Qian,
usando più metodi, dallo studio statistico dei GWAS database a metodi
pesati per stime MR, hanno ottenuto risultati che consentono ragionevolmente di
escludere un rapporto causa-effetto. [Cfr. Arch Public Health 82 (1): 39,
2024].
Le mucche da latte possono imparare a
trasformare in gioco un’esperienza stressante. Questi bovini
ricevono molte cure in allevamento, ma alcune procedure possono risultare
stressanti, e dunque suscitare reazioni di avversione o paura. Un PRT (positive
reinforcement training), ossia un esercizio con ricompensa per ottenere il
comportamento desiderato, condotto 4 giorni a settimana con una sessione al
giorno per animale, per un totale di 28 sessioni, ha ottenuto buoni risultati.
Le mucche imparavano a considerare positiva l’esperienza in precedenza vissuta
come stressante e associavano all’apprendimento un comportamento divertito, con
salti, corse e disposizione al gioco. [Cfr. Heinsius J. L. et al., Journal of
Dairy Science – AOP doi: 10.3168/jds.2023-23709, 2024].
Le madri scimpanzé giocano sempre con i
figli e non solo per facilitarne la crescita. Un’osservazione
condotta su scimpanzé in ambiente naturale per 10 anni ha evidenziato il ruolo
del gioco nel rapporto delle madri con i figli: una modalità di relazione
conservata in tutte le circostanze e per il resto della vita. Quando i primati
sono in difficoltà perché il cibo scarseggia, in genere il focus degli adulti
si sposta sulla sopravvivenza, e abbandonano il gioco; ma le madri, pur andando
in cerca di cibo, continuano a giocare con i figli anche grandi, rincorrendoli,
mimando l’aeroplano, facendo loro il solletico e condividendo il piacere di
trascorrere tempo con loro lasciandosi andare. [Cfr. Current
Biology – AOP doi: 10.1016/j.cub.2024.02.028, 2024].
Una popolazione di orche con nuovi
comportamenti è stata individuata nel Pacifico Nordorientale.
Ci siamo di recente occupati di orche (Orcinus
orca), trattando dell’aumento degli attacchi degli squali all’uomo (Note e
Notizie 17-02-24 Notule: Aumentano gli attacchi mortali degli squali all’uomo:
cambiamento comportamentale?), e in precedenza abbiamo riportato dei nuovi
comportamenti sviluppati dalle orche in qualità di predatori marini apicali (v.
Note e Notizie 04-11-23 Notule: Orribili e stupefacenti: i nuovi
comportamenti delle Orche fanno riflettere).
Ricercatori della University of British
Columbia hanno individuato al largo della California e dell’Oregon una
popolazione di 49 orche con comportamenti inusitati: oltre a cacciare
tartarughe marine attaccavano i capodogli, cosa mai avvenuta in precedenza. L’orca,
unica specie del genere Orcinus, è un cetaceo
della famiglia dei delfinidi e non delle balene, come potrebbe suggerire l’improprio
nome inglese di killer whale, e non attacca
mai il capodoglio (Physeter macrocephalus), mastodontico cetaceo odontoceto
considerato il più grande predatore al mondo, con i maschi che possono superare
i 20 metri di lunghezza. Josh D. McInnes e colleghi
hanno raccolto osservazioni per 4 anni e durante 9 incontri diretti con le
orche di questo gruppo di 49, documentando riccamente l’ipotesi di una
popolazione che ha sviluppato comportamenti aggressivi nuovi. [Cfr. Aquatic Mammals – AOP doi:
10.1578/AM.50.2.2024.93, 2024].
Isola di Pasqua: il
mistero più grande è nella scrittura. La domenica di
Pasqua del 1722 un navigatore olandese di nome Jakob Roggeveen[1]
sbarcò su un’isola vulcanica del Sud Pacifico, in realtà appartenente alla
Polinesia ma poi entrata nella giurisdizione cilena, che denominò “Isola di
Pasqua” dal giorno in cui avveniva lo sbarco. Ritenuta dai geografi la terra
abitata più isolata al mondo, era chiamata dagli indigeni Rapa Nui o Rapanui, reso
nella traduzione con “grande isola”, e talvolta indicata con Te Pito oppure Te Henua,
espressioni che definiscono un concetto spaziale assoluto, che forse potremmo
rendere con La Terra, ma che sono state tradotte nelle lingue occidentali
con la colorita locuzione “l’ombelico del mondo”[2].
I monoliti, le enormi
statue raffiguranti teste e busti con le acconciature tradizionali, di altezza
dai due metri e mezzo ai dieci metri, con una incompiuta alta ventuno metri,
che contraddistinguono l’isola e la sua misteriosa civiltà perduta, sono dette
Moai, dal Mo’ai rapanuense.
Anton Franz Englert frate Sebastian, missionario dei
frati minori cappuccini e linguista tedesco, sull’isola dal 1935 al 1969 come
sacerdote missionario, unico non appartenente al popolo di Rapa Nui a imparare la lingua indigena[3], elencò,
numerò e classificò 638 Moai; successivamente l’Archeological
Survey and Statue Project ne ha riconosciuti 887, ma da resti e frammenti
ipotizza che in origine fossero più di 1000. Sul retro delle statue sono incisi
simboli, fra cui spesso si riconosce la Vaka (“falce”),
e che, nell’insieme, ci introducono al rompicapo della scrittura dell’Isola di
Pasqua che, al contrario di quanto a volte si sente in documentari televisivi o
si legge in trattazioni superficiali simili a testi di guide turistiche, non è
la resa scritta della lingua rongorongo parlata
dai nativi.
In tutta l’area
geografica del Pacifico meridionale l’isola Rapa Nui
è stata l’unica a sviluppare ciò che appare un proprio sistema di scrittura,
con la quale gli indigeni incidevano anche la superficie di quel pettorale di
legno di toromiro[4] a
forma di mezzaluna, divenuto l’emblema di quella cultura, ossia il Rei Miro: oggi
la bandiera dell’Isola di Pasqua è un Rei Miro rosso su campo bianco. Le
scritte su questo oggetto, rimasto misterioso nell’uso e nel significato, non
sono state di alcun aiuto per la decifrazione.
La prima difficoltà da
superare è la distinzione basata sulla conoscenza storica tra le
rappresentazioni grafiche attribuibili al popolo autoctono e quelle realizzate
dopo la colonizzazione da parte di nativi sudamericani prima della scoperta dell’America.
La leggenda trasmessa oralmente dai nativi attribuisce l’invenzione della
scrittura al re Hotu Matua,
che l’avrebbe portata con sé dal mare[5].
Non possiamo tacere, in proposito, l’esperimento condotto dall’esploratore
norvegese Thor Heyerdahl che, per provare la colonizzazione da parte di una
popolazione proveniente dal Sud America, verosimilmente dal Perù, costruì un
battello simile a una grande zattera a vela, che chiamò Kon-Tiki,
dal nome del dio della pioggia Inca, e col quale compì la traversata fino a Rapa
Nui[6]. Tuttavia,
la plausibilità di un tale viaggio con un mezzo antico e tipico non risolve i
problemi che, come vedremo più avanti, vedono ancora divisi gli studiosi. In
particolare, i glifi dell’isola non sembrano derivare dai sistemi di scrittura del
Sud America.
L’avventura della
decifrazione solo in parte riuscita della scrittura dell’Isola di Pasqua
comincia con un gruppo di tavolette venute all’attenzione di un missionario,
padre Zumbohm, che nel 1868 le fece conoscere a
linguisti ed epigrafisti europei. L’aspetto tipico è quello di una tavola
oblunga levigata, ad angoli smussi, che può raggiungere i 90 cm e presenta su
entrambe le facce un’ordinata serie di simboli in file longitudinali che, ad
ogni fila, invertono il verso della lettura. I documenti lignei studiati a
quell’epoca erano poco più di venti, e oggi sono sparsi nei principali musei d’Europa.
L’iscrizione era tracciata con una punta di ossidiana e poi completata nell’incisione
con un dente di squalo.
Con l’aiuto dei nativi,
che sembravano intendere perfettamente il significato delle iscrizioni, furono
distinte in base alla funzione: 1) koau rongo rongo (roŋo) erano le tavolette per la recitazione comunitaria
rituale; 2) koai mama
erano quelle per l’eliminazione dei tabù; 3) koau
ra’u erano le tavole dell’anno. Le più
interessanti sono le prime: il koau rongo rongo è un sistema
specifico di glifi, il cui nome vuol dire “linee recitative”, da koau = “linea incisa” e dal raddoppiamento di
rongo (messaggio), che vuol dire “recitare”, “declamare”,
“cantare”[7]. La
tradizione diceva che tutte le tavolette erano state incise sull’isola dove,
prima del legno, si usavano le foglie del banano. Un duro colpo al lavoro di
decifrazione fu inferto dagli schiavisti, che catturarono e deportarono come
schiavi il re[8],
la famiglia reale, la corte e la quasi totalità dei nativi in grado di “leggere”
le tavole e le altre iscrizioni. Abbiamo messo tra virgolette il verbo, perché
era subito apparso evidente che i glifi, non solo non erano cifre esaustive come
quelle verbo-grafiche della scrittura alfabetica ma, in molti casi, sembravano
non avere corrispondenza con quanto declamavano o cantavano gli indigeni quando
le avevano davanti.
I missionari impegnati
nello studio delle iscrizioni riferivano che ogni anno il sovrano dell’Isola di
Pasqua chiamava a raccolta per una cerimonia solenne gli “esperti di canto” da
ogni angolo di Rapa Nui, e ciascuno di questi
conveniva con le sue tavolette e ne cantava o declamava il contenuto. L’ultimo
dei sovrani fu l’ariki Ngaara
del clan Miru, morto intorno alla metà del XIX
secolo; le stragi dell’incursione cilena del 1863, seguita dalla diffusione di
sifilide e vaiolo, determinarono quasi la scomparsa di persone in grado di
riconoscere i glifi. Jaussen, Vescovo di Tahiti dal
1868, lasciò un primo studio sulle tavolette e sul loro uso. Raccolse una lista
con i nomi e la traduzione di 253 caratteri secondo quanto gli avevano comunicato
i nativi; soprattutto osservò che “il canto delle tavolette richiedeva più
parole di quanti non fossero i simboli. Era evidente quindi che chi leggeva
ricordava a memoria il contenuto”[9].
Oggi comprendiamo qual
era la difficoltà dei primi studiosi nel tentativo di decifrare: i glifi del rongorongo non originavano da una cifratura fissa e
completa della lingua parlata, ma rappresentavano in parte un codice e
in parte stimoli evocatori di memorie già formate, ossia qualcosa in
grado di richiamare alla mente un contenuto.
Per questo, oggi sappiamo
tante cose delle iscrizioni rongorongo, e
possiamo ad esempio dire che sono estese con andamento bustrofedico,
ossia secondo il movimento che fanno i buoi quando arano un campo che, se
tracciano il primo solco andando da sinistra a destra, tracceranno il
successivo da destra a sinistra, e così via; ma questo non aggiunge molto: anche
il latino dei codici medievali era scritto dai monaci in bustrofedico e, per
giunta, in scriptio continua. Il problema irrisolvibile è che alcuni
glifi, che rappresentano forme naturali, umane, di animali, di piante, o forme
geometriche astratte, non codificano la lingua ma stanno lì a suscitare il
ricordo di chi conosce il contenuto: forse un concetto o, più probabilmente,
una sequenza di significati.
Un’ipotesi parsa a
molti ragionevole ha considerato che vi sia stato un modo più antico di annotare
i concetti cantati, che si sia poi evoluto attraverso l’influenza di forme di
scrittura portate dai conquistatori peruviani, o che sia stato soppiantato dalle
nuove forme di notazione. La prima delle due possibilità è stata suggerita da
studiosi che hanno proposto un accostamento con quanto accaduto presso la tribù
dei nativi Cherokee del Nord America: entrati in possesso di giornali inglesi
dei coloni, hanno ripreso il criterio di cifratura alfabetica dei fonemi per
scrivere il loro idioma.
Per anni la scrittura
di Rapanui è stata accostata alle forme grafiche di
Sumatra, dello Sri Lanka, dell’Egitto, della Cina arcaica. Infatti, sul piano
formale si può dimostrare che una parte dei suoi segni trova rispondenza in
quelli della Valle dell’Indo. Molti linguisti hanno avanzato l’ipotesi di un
collegamento, ma almeno altrettanti hanno evidenziato l’enorme distanza di
tempo e spazio fra le due esperienze e, soprattutto, l’assenza di possibili
anelli di congiunzione.
Questa ipotesi è stata
definitivamente abbandonata, dopo la decifrazione di alcune tavolette da parte
di Thomas Barthel. Basandosi per il suo lavoro sui
preziosi e dettagliati appunti del Vescovo di Tahiti Jaussen,
con la tavola di conversione di 253 caratteri, “Barthel
ha mostrato che le tavolette cifrano una lingua polinesiana con criterio
logografico: ogni segno vale la sequenza fonica di una parola, ma senza
particelle o pronomi, che evidentemente vengono integrati a memoria. Si
tratterebbe quindi di un sistema di supporto, complementare ad un apprendimento
a memoria di testi di interesse rituale”[10].
La decifrazione di
quelle tavolette rongo rongo
non risolve il problema della decifrazione di tutta la scrittura rapanui, ma nemmeno dei soli documenti scritti per
il canto cerimoniale. Analisi attente condotte in anni recenti hanno evidenziato
che alle tavolette non mancano solo “particelle” e “pronomi” delle nostre
lingue (di ceppo latino o germanico) ma anche altri funtori, verbi e
sostantivi. Ma, soprattutto, la maggior parte delle 26 tavolette scritte nei
glifi rongorongo, pur avendo in massima parte
gli stessi segni, non è stata decifrata, perché adottando gli stessi criteri di
Jaussen e Barthel non
sembrano avere alcun senso. Una possibilità è che prevalga in queste, sulla
funzione comunicativa, la funzione evocatrice di contenuti e significati
presenti nella memoria del lettore.
Rimane irrisolto anche
il problema della provenienza del modello dei glifi, ossia della base
principale del codice. Secondo Barthel si tratta di
una scrittura polinesiana e non peruviana. L’antropologo austriaco Robert Heine-Geldern avanzò un’ipotesi compatibile con l’origine da
una migrazione polinesiana o prepolinesiana: la
scrittura rapanui può essere ricollegata a una
scrittura asiatica del I millennio a.C. usata sulla costa del Tonchino, ponte
tra la scrittura della Valle dell’Indo e quella cinese più arcaica.
L’ipotesi è anche compatibile
con la leggenda del re Hotu Matua, che porta la
scrittura dal mare; ma, come già faceva notare Giorgio Raimondo Cardona, è
posta fortemente in dubbio da questa osservazione critica: “se effettivamente
essa è stata portata nella direzione indicata da Heine-Geldern,
è comunque inspiegabile che al di fuori di Rapanui
non ne sia rimasta traccia in nessun’altra isola”[11].
Oggi, in assenza di
nuovi elementi dalle ricerche archeologiche, si rimane sospesi in questa
aporia, a meno che non si voglia concedere una sia pur minima probabilità a un’eventualità
esclusa da tutti a priori: e se quella caratterizzazione dei glifi assente
nelle altre isole polinesiane fosse stata creata proprio nell’Isola di Pasqua? [BM&L-Italia, marzo 2024].
Un’obiezione sulla Tavoletta di Narmer
ci dà l’occasione per fornire nuovi spunti di conoscenza e riflessione.
Al Seminario Permanente sull’Arte del Vivere è stata comunicata un’obiezione
all’affermazione sulla Tavoletta di Narmer o
Tavola della Vittoria di Narmer dell’egittologo
Bob Brier “il primo documento storico al mondo”[12]
(v. Note e Notizie 16-03-24 Notule: I geroglifici aiutano a comprendere l’esperienza
creativa della scrittura delle origini), rilevando che esistono iscrizioni molto
più antiche nel continente africano.
È vero che la ricerca archeologica degli ultimi 25 anni ha portato alla
luce una quantità di materiali antichissimi e interessantissimi, in massima parte
reperiti e studiati dopo la pubblicazione del libro di Bob Brier,
e che queste scoperte hanno portato a rivedere molte nozioni relative alla
cronologia delle più remote tracce di scrittura. E, a questo proposito, riportiamo
il reperimento di un’iscrizione nell’oasi di Kharga,
ovest della Nubia, datata all’incirca 5000 a.C.: i segni, sotto un’immagine che
si ritiene possa rappresentare il dio nilotico Seth, presentano analogie con
sistemi di scrittura sviluppati in epoche seguenti (Tifinagh
e Vai) e sono considerati la più antica forma di scrittura nota, denominata “Proto-Sahariano”.
Dobbiamo osservare, innanzitutto, che vige una distinzione tra pre-scrittura
e proto-scrittura: la prima definizione indica la resa in segni di un
pensiero non effettuata attraverso un sistema codificato per rendere una lingua;
la seconda si riferisce a primi tentativi di codifica grafica di una lingua
parlata. Questa distinzione in alcuni casi è evidente, in altri lo è meno, e il
giudizio su alcuni reperti archeologici di iscrizioni non vede concordi i
linguisti.
Per orientarsi, vale il criterio insegnato in Italia dal professore
Aniello Gentile: per essere certi nell’attribuzione del valore di proto-scrittura
alle serie di segni tracciati o incisi sulla pietra è necessario avere prove
sufficienti che i simboli fonetici, logografici o pittografici costituiscano un
mezzo per rappresentare una lingua parlata. In altri termini, per scrittura si
deve intendere la rappresentazione di astrazioni mediata dalla lingua,
ossia da un codice orale condiviso per tradizione da un esteso gruppo di
parlanti. Ciò che rappresenta direttamente le idee senza riferimenti al codice
orale della lingua parlata, nella massima parte dei casi rientra nel disegno,
nella pittura, nell’arte.
Tanto premesso, facciamo una precisazione circa l’affermazione dell’egittologo
Bob Brier da noi riportata: lo studioso non dice che
la Tavoletta di Narmer sia la più antica iscrizione conosciuta
nella storia dell’umanità, ma “il primo documento storico al mondo”, ossia un
manufatto che, adoperando una proto-scrittura ancora affidata a tre criteri (figurativo,
fonetico e logografico) rappresenta un evento storico confermato da
centinaia di attestazioni documentali, ossia la riunificazione del regno di
Egitto.
Un’osservazione critica la avanziamo noi, in questa sede a nome della cultura
storica, nei confronti degli autori, prevalentemente statunitensi, di testi che
stanno applicando i criteri geopolitici correnti alla descrizione delle civiltà
del passato e della realtà antica: non è proponibile derubricare la civiltà degli
antichi Greci, la cui cultura diffusa dai Romani in tutto il territorio dell’Impero
è giunta in tutto il mondo attraverso la fusione di alcune sue radici con la
cultura cristiana, come “una civiltà dell’Europa sudorientale”; o definire gli
antichi Egizi semplicemente come “un popolo africano”.
Ci auguriamo che questo “costume” non derivi da un “revisionismo da
ignoranti”, ma solo dall’influenza propagata attraverso il web dello
stile giornalistico che Wikipedia e altri grandi portali a fruizione globale
hanno introdotto nelle trattazioni biografiche, in cui si legge di Platone,
Cesare o Dante Alighieri “è stato un filosofo, un governatore o un poeta”,
come se si stesse trattando di un contemporaneo appena defunto, e come se
qualcuno potesse crederli ancora in vita; e si leggono biografie introdotte da schede
riassuntive compilate nello stile di un curriculum aziendale, nelle
quali, ad esempio, si legge: “Napoleone – professione: imperatore”. [Fonte:
Seminario Permanente sull’Arte del Vivere BM&L-Italia, marzo 2024].
Notule
BM&L-23 marzo 2024
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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Considerato uno dei maggiori esploratori
del Pacifico Orientale, scoprì fra l’altro le isole Samoa.
[2] Senza rendersene conto, i traduttori
hanno incluso nel valore semantico del termine la prospettiva occidentale
moderna: per noi che abbiamo presente la complessiva estensione del globo terraqueo,
identificare la propria isola con la terraferma in assoluto è come considerarla
“l’ombelico del mondo”.
[3] Autore di un Dizionario RapaNui-Spagnolo (1938) e di un’opera storica, antropologica
e archeologica sull’Isola di Pasqua da noi consultata nella riedizione del
2004: La tierra de Hotu Matu’a (1948).
[4] Un albero tipico dell’isola.
Oggi li fanno anche con legni diversi o con altri materiali. La sagoma presenta
alle estremità due teste di animali; i Rei Miro sono a volte rifiniti come
uccelli stilizzati, a volte come imbarcazioni.
[5] Si ritiene sia vissuto in un periodo
intorno al 1200, ma non vi è certezza.
[6] Narrò l’impresa in un libro intitolato
proprio Kon Tiki, poi diresse un film-documentario
sulla traversata, premiato con un Oscar. Attualmente l’imbarcazione Kon-Tiki è esposta al Kon-Tiki
Museum di Oslo.
[7] D’altra parte sappiamo che in
tutto il mondo antico i testi poetici erano cantati (i Salmi, le opere
omeriche, ecc.), e che l’invenzione di una poesia senza musica appartiene a un’evoluzione
tardo-medievale e moderna della cultura occidentale.
[8] In molti resoconti dell’epoca,
il sovrano di Rapa Nui è definito semplicemente “capo”,
come se tutta la popolazione fosse costituita da una sola tribù rimasta allo stato
selvaggio; naturalmente, non era questa la visione dei nativi che, anche grazie
all’opera di molti missionari, avevano creato istituzioni civili e religiose
sul modello europeo, edificando chiese ed edifici civici.
[9] Giorgio Raimondo Cardona, Storia
Universale della Scrittura, p. 264, Edizione CDE (su licenza Arnoldo
Mondadori Editore), Milano 1986.
[10] Giorgio Raimondo Cardona, op.
cit., idem. Barthel decifrò, in particolare, la
tavoletta Mamari, ossia un calendario lunare, e
dunque l’unico scritto di cui si è compreso completamente il significato e la
funzione. Attualmente la tavoletta è custodita presso l’Archivio dei S.S. Cuori
a Grottaferrata (Roma).
[11] Giorgio Raimondo Cardona, op.
cit., idem.
[12] Robert Brier, Daily Life of the Ancient Egyptians, p. 202, A.
Hoyt Hobbs, 1999.